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Una macchia di caffè nel cuore

2016-11-12-08-45-32

Non so se vi siete mai rotti qualcosa: una gamba, un polso, un dito. Se vi è capitato lo sapete: una frattura è “per sempre”, come un diamante. Le ossa si ricompongono, si calcificano, rinsaldandosi nuovamente in un tutt’uno, ma quando cambiano le stagioni, oppure ci si ritrova in mezzo ad ambienti umidi o si insidia un vento fastidioso, gelido, il dolore che si irradia nello stesso punto dove c’è stato il trauma ricorda l’evento.
Quando scopriamo per la prima volta che qualcuno in cui credevamo, di cui ci fidavamo, tradisce le nostre aspettative, quella “frattura” dell’anima si comporterà alla stessa maniera.
Il nostro panettiere, il macellaio, il bar dove pigliamo abitualmente il caffè ci ha fregato. O ci ha provato. E l’ha fatto con quella disinvoltura tipica della malafede, senza esitare, contando sulla nostra dabbenaggine o sulla distrazione di chi è immerso in altri pensieri, con la mente assorta nell’ingenuità di chi si fida.
Il nostro amico del cuore ha smesso di cercarci o ha dimenticato il nostro compleanno, mentre noi ci ricordiamo sempre del suo. Oppure gli abbiamo scritto e non ha risposto, ed abbiamo atteso il primo giorno e poi il secondo ed il terzo, fino a quando ci siamo resi conto, vedendo la doppia v azzurra, che ha letto e che quella “non risposta” è stata una precisa scelta.
L’amore della nostra vita ha detto la sua prima parolaccia. E l’ha indirizzata proprio a noi. Oppure ha rinfacciato qualcosa che ha fatto e che immaginavamo spontanea, disinteressata, altruista. O ancora fa finta di non capire, di non sentire, di non vedere, tutto ciò che spieghiamo, diciamo, mostriamo, sperando che qualcosa cambi, che ad un nostro desiderio corrisponda una manifestazione d’amore che non arriva.
Si tornerà ad acquistare nello stesso negozio, si farà pace con l’amico, si stringeranno le stesse mani, si daranno altri baci ed altre carezze a chi si ama, ma dentro di noi, dentro uno dei cassetti in cui depositiamo ogni emozione vissuta, il ricordo di quella frattura continuerà ad esistere.
E quel commerciante, quell’amico, quell’amore, agli occhi del nostro cuore non sarà più lo stesso. Sarà contaminato da una macchia che ci ha fatto soffrire. Come in quella camicia, quella maglia, quel completo a cui tenevamo tanto e che ogni volta riguardiamo nell’armadio, appeso, immobile, pensando a quella piccola offesa color caffè. Non lo buttiamo perché è l’affetto che muove le nostre decisioni, ma resta chiuso, in odore di stantio, nell’attesa – ignorando il se ed il quando – che un nuovo capo d’abbigliamento prenda il suo posto.

Io sono cittadino dell’Universo…

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Un ricordo si fece largo nella sua mente. Giuseppe era seduto sulla sabbia. La barba lunga e gli occhiali sui capelli, che allora erano lunghi e numerosi, ricci, neri come la pece. Parlava a voce alta, recitando un brano di un filosofo che non ricordava.

Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che cosa resta da fare a costoro se non seguire l’esempio di Socrate e cioè non rispondere mai a chi vuole sapere la loro città: Non sono cittadino d’Atene o cittadino di Corinto. Io sono un cittadino dell’universo…”

Alzava le braccia e le muoveva simulando le ali di un uccello. Rideva e faceva il buffone. Poi le toccava un piede e continuava. Si sbellicava, faceva finta di volare, recitava e le toccava il piede. E lei era innamorata da morire di quel ragazzo. Delle sue parole, delle sue speranze, dell’allegria con cui trascorrevano interi pomeriggi. Delle cene fatte in auto con rigatoni funghi e panna. Non avevano soldi per cenare fuori perché lui non voleva chiederli ai suoi genitori e lei, anche volendo, non avrebbe avuto la stessa possibilità. Ed allora lui cucinava a casa la pasta con la panna e gli champignon in scatola. E scendeva con la pentola piena di rigatoni. Si fermavano sotto il ponte della circonvallazione, che allora era ancora in costruzione, e mangiavano dentro la sua Dyane 6. Un tavolo di legno come ripiano. Due arance e una bottiglia di vino frizzante. Poi, dopo aver fatto l’amore, si addormentavano abbracciati.

Teresa e Giuseppe

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Giuseppe entrò al supermercato di malavoglia. L’idea di dover fare la fila alla cassa esclusivamente per acquistare dei rasoi usa e getta gli dava noia. Ma già quella mattina, nell’adoperare l’ultimo disponibile, in uso da una settimana, si era fatto un paio di tagli sul labbro. Aveva rimediato con uno strato di allume di rocca che si era condensato in due piccoli plichi biancastri che poco dopo erano diventati rosa, prima di staccarsi dal volto. L’acquisto non era quindi rimandabile.

Entrò superando una fila di persone intente a prendere i carrelli, spinse il girello e si diresse verso il reparto attraversando una decina di corridoi. Con la coda dell’occhio notò una donna vestita di rosso che si chinava a raccogliere qualcosa nel banco dei surgelati. Era di tre quarti, ma l’aria era familiare. La vide girarsi e chiedere ad un commesso qualcosa porgendogli un trancio di pesce. Era Teresa. La raggiunse senza farsi vedere, spostandosi lateralmente, in maniera da restarle alle spalle. Quando fu a pochi centimetri le si avvicinò e le diede un bacio sulla testa. Teresa fece un balzo in avanti e si girò di scatto.

Ma sei scemo?”

Probabilmente” ammise Giuseppe “Uno che bacia sua moglie in un luogo pubblico è oggi uno scemo sopra la media. Ma amo fare tendenza, lo sai…”

Teresa lo guardò come si guarda un marziano e gli diede una leggera spinta sulla spalla.

Ma va, smettila…, che ci fai qui?”

Sono venuto a prendere i rasoi”

E come mai non sei a scuola?”

Perché i ragazzi hanno deciso di chiedere un’assemblea immediata per via di alcuni bagni che non funzionano ed il preside gliel’ha concessa. Che c’è mi fai l’interrogatorio?”

Si. Esatto. Vedi che hai capito?” confermò Teresa e aggiunse “andiamo alla cassa che ho finito. Tu hai già preso i rasoi?”

Ancora no”

Allora vai, che ti aspetto alla cassa”

Le file sembravano tutte interminabili. Una decina di persone per ciascun turno e carrelli stracolmi ben distribuiti. Teresa allungò il collo per vedere chi sedesse in una cassa e chi nell’altra. Nel tempo, frequentando sempre lo stesso supermercato, si era fatta un’idea dei commessi più veloci, di quelli chiacchieroni e di quelli imbranati. C’era una ragazza in particolare che evitava con regolarità da quando gli aveva fatto perdere la tessera fedeltà all’interno del tappeto scorrevole. Teresa l’aveva poggiata prima dei suoi acquisti in modo che raggiunto il sensore bloccasse l’avanzare del nastro, ma quando era stato il suo turno la commessa l’aveva fatta scivolare all’interno della fessura che inghiottiva il rullo. Quello era stato l’ultimo giorno che Teresa aveva pagato dove sedeva la ragazza.

Scelse il turno che le sembrò più breve, anche perché alla cassa c’era un giovane ragazzo molto gentile che in diverse occasioni le aveva regalato le buste senza fargliele pagare.

Quando Giuseppe la raggiunse la fila era ancora lunga ed un altro paio di persone si erano aggregate alla coda. Ripose i rasoi nel carrello e si portò la mano al labbro per sentire la consistenza delle sue piccole ferite.

Si vedono ancora i tagli?” fece a Teresa

Poco” rispose, e poi domandò “Volevo preparare un risotto. Ti va?”

Va bene” rispose Giuseppe

Teresa si guardò in giro scrutando le altre persone in attesa. Dava le spalle alla cassa e guardava un po’ a destra ed un po’ a sinistra, quasi cercasse qualcuno.

Hai dimenticato di prendere qualcosa?” le chiese Giuseppe

Teresa non replicò, ma gli lanciò uno sguardo che era una risposta.

A Giuseppe aveva sempre dato fastidio il modo con cui Teresa guardava le persone, in particolare gli altri uomini. Lei attirava l’attenzione del prossimo su di sé in una maniera tanto semplice quanto per il marito detestabile, soprattutto in sua presenza.

Fissava in continuazione qualcuno fintanto che questi, sentendosi osservato, non incominciava a fare lo stesso. Quando Teresa si accorgeva di essere ricambiata smetteva di guardare ed incominciava a dedicare le sue attenzioni verso un’altra persona. La situazione si ripeteva in un perpetuo gioco di sguardi che Giuseppe subiva passivamente, non senza sentire aumentare la sua irritazione.

Ne avevano discusso in più occasioni senza venirne a capo. Teresa gli aveva dato del matto, accusandolo di essere un visionario e di farle vivere con ansia qualsiasi momento si trovassero insieme ad altra gente. Ma Giuseppe si sentiva più che certo delle sue affermazioni.

Una sera, tempo prima, erano andati a cenare fuori in un paese vicino. C’era una sagra delle tante, con bancarelle e gruppi musicali che si esibivano su un palco improvvisato.

All’ingresso del locale Teresa aveva accelerato il passo per precedere Giuseppe nell’entrata. Faceva sempre così. Con grande sveltezza individuava i tavoli liberi e quelli occupati. Dopo di che, con andatura veloce, senza chiedere nulla al marito, decideva di sedersi nel posto che le consentisse la maggior visuale possibile sul resto della sala. Sceglieva quindi la sedia prospiciente gli altri tavoli, lasciando a Giuseppe quella opposta, con le spalle agli altri commensali, di sovente con di fronte una parete, oltre a lei naturalmente.

In questo modo Teresa si poteva garantire di guardare, e farsi guardare, come pensava e le diceva il marito. Mentre Giuseppe non aveva altra vista che quella obbligata per la moglie ed un muro spoglio.

Quella sera affisso alla parete c’era uno specchio, ma Teresa non ci aveva fatto caso più di tanto. Aveva preso posto e con una mano aveva indicato a Giuseppe dove avrebbe dovuto sedersi.

Il locale aveva poca gente, ma erano appena le otto di sera. Qualche tavolo mostrava un biglietto con la scritta “riservato”. Dopo che ebbero guardato i menù un’altra coppia si era seduta alle loro spalle. Giuseppe aveva visto la scena dallo specchio. Con gli stessi identici tempi e meccanismi che conosceva la coppia si era accomodata al tavolo, ma questa volta i ruoli si erano invertiti. Era stato l’uomo ad avere accelerato il passo individuando dove sedersi ed indicando alla moglie la sedia rimasta. Manco a dirlo l’uomo e Teresa erano di fronte, mentre Giuseppe e la donna si davano le spalle.

Quello che all’apparenza sembrava normale era espressione di situazioni note. Logiche di coppie in cui era facilmente intuibile chi decideva e chi doveva adeguarsi.

Giuseppe amava capire le persone, scrutare i loro gesti, gli atteggiamenti, ascoltando pareri anche diversi, frequentemente senza intervenire cercando di far cambiar idea o dicendo la propria opinione, anche se in netta contraddizione con atteggiamenti che ai suoi occhi risultavano insulsi o lascianti trasparire varie forme di fragilità. Si sentiva abbastanza maturo da riuscire a comprendere la gente, cosa provava e quali erano le motivazioni nascoste dietro modi di fare che mascheravano altro.

Teresa iniziò a guardare oltre la spalla di Giuseppe durante la discussione che fecero, incentrata sull’esigenza di Teresa di rifarsi il seno.

La donna affermava che gran parte del suo malessere, quel perenne senso di insoddisfazione del quale il marito si lamentava, fosse dovuto al suo non piacersi, a quei due seni piccoli che in inverno mimetizzava con ampi maglioni, ma che in estate era costretta a mostrare in tutta la loro piccolezza.

E più Giuseppe provasse a rassicurarla sul fatto che a lui quei minuscoli seni non dispiacessero affatto, più Teresa lo accusava di essere insensibile ed egoista, di pensare solamente a se stesso, trascurando quella che, affermava, essere il più grande desiderio della sua vita.

Ogni tanto interrompeva di assaporare i ravioli di cernia e si portava la coppa di vino alle labbra continuando a guardare alle spalle di Giuseppe che, attraverso lo specchio, si accorgeva benissimo di come le attenzioni di sua moglie fossero ricambiate con altrettanti sguardi dell’uomo che sedeva nel tavolino poco distante.

Non ti ho mai chiesto niente e nulla ti chiederò all’infuori di questo. Ed il prezzo corrisponde a quanto spendiamo circa ogni anno per andare in vacanza. E’ ragionevole no?”

Giuseppe attese che il cameriere avesse finito di ritirare i piatti del primo e se ne fosse andato.

A parte che noi spendiamo di meno…”

Ho detto circa” lo interruppe Teresa

Poi non capisco a chi tu debba piacere”

Ma io sono felice di piacerti così. Super felice. Ma tu non ami l’idea di avere una moglie con una quarta misura?”

Una quarta?” esclamò Giuseppe

Va bene una terza” replicò Teresa. “Sei l’unico uomo al mondo che non gliene frega nulla di avere accanto a sé una donna con un seno prosperoso”

A me interessa altro nella vita”

E a me interessa quello e quest’altro e tu sei la persona più egoista e crudele che conosca. A te sembra che sono cretina. Ti pare che non sappia perché non vuoi…”.

Si impuntava alzando la voce quel tanto che bastasse a far sentire agli altri che la coppia stava sostenendo una discussione per niente amichevole. Anche se il tono diventava stridulo, Teresa non smetteva di posare i suoi occhi oltre il marito.

Per favore abbassi il tono?” fece Giuseppe

Perché?” rispose Teresa “non vuoi che capiscano quanto sei arido, egoista e insensibile?”.

Detto questo si alzò dal tavolo, poggiò il tovagliolo alla sua sinistra e aumentando il tono della voce disse: “vado al bagno”. Quindi lanciò un lungo sguardo verso il tavolo accanto e si diresse verso il fondo del locale.

Giuseppe si versò un altro po’ di vino e lo scolò tutto d’un fiato. Creò mentalmente un muro di mattoni.

Era il suo modo abituale per generare una barriera virtuale, immaginaria, che lo aiutasse a sopportare le situazioni di disagio che era costretto a subire, suo malgrado. Quando al lavoro si scontrava con qualche collega petulante, con un segretario arrogante, con un alunno insolente, Giuseppe automaticamente erigeva quel muro. Molto velocemente, mattone dopo mattone, una barriera immaginaria si interponeva tra lui ed il suo interlocutore. Un ostacolo che era, nella sua fantasia, difesa, protezione, distanza. Lo stesso accadeva con Teresa quando erano a letto, la sera, e magari avevano litigato o lei russava com’era solita fare. Giuseppe erigeva la barriera di laterizi rossi, perché tali li voleva la sua fantasia, e si sforzava di andare avanti, pensando ad altro.

Il suo sguardo cadde sullo specchio che aveva di fronte e non poté fare a meno di notare che l’uomo alle sue spalle si era anche lui alzato, lasciando la moglie da sola.

Teresa era al bagno, o almeno così aveva detto, perché lui non poteva vedere dalla sua posizione dove fosse andata. Aveva portato con sé il suo telefono cellulare. Un atto che riteneva stupido al quale era abituato. Non che lui si sarebbe mai sognato di sbirciare qualcosa in sua assenza, ma era stato inevitabile notare, in più di un’occasione, come lei inserisse una password prima di accedere alle funzioni del suo telefono. Che aveva da nascondere? Chi, oltre lui, poteva essere temuto in quella protezione esagerata ed esasperante della sua privacy? Perché adesso, come sempre, aveva portato con sé finanche in bagno, per qualche breve minuto, il suo portatile?
Si accorse di vivere ansiosamente il trascorrere dei secondi, dei minuti, pochi in verità, ma non avrebbe saputo dire quanti, visto che non aveva guardato l’orologio quando sua moglie si era alzata. Questa sensazione lo disturbava. Nello scoprirsi infastidito per qualcosa che molto probabilmente lo spingeva verso pensieri ingiustificati sentiva aumentare la tensione con quella autonomia che immaginava nelle automobili in cui, all’improvviso, si rompono i freni ed il guidatore, con la vettura oramai lanciata in una folle corsa, deve governare la macchina senza cercare di andare a sbattere.

Si versò ancora una volta del vino. I minuti trascorsi erano cinque. Cinque sicuri perché calcolati da quando lui aveva guardato l’orologio, quindi oggettivamente dovevano almeno essere sette oppure otto o dieci.

Vide l’uomo alle sue spalle ritornare al suo posto e chiedere alla moglie di andare fuori dal locale per fumare. Senza proferire parola le aveva fatto un gesto con la mano. Il dito indice ed il medio congiunti a simulare di reggere una sigaretta che non c’era. Lei si alzò prese la borsetta e lo seguì fuori.

Passarono un paio di minuti e anche Teresa ritornò. La guardò sedersi e, nel farlo, lei sentì che lo sguardo di Giuseppe era diverso.

Non la stava semplicemente osservando. La stava studiando, quasi radiografando. I suoi occhi stavano fissi sulle sue labbra. Cercava di cogliere un particolare che desse conferma alle sue ansie. Un po’ di trucco in meno, i capelli stropicciati, il vestito sgualcito. Non si ricordava neppure se Teresa quella sera avesse messo il rossetto sulle labbra. Non l’aveva guardata con attenzione prima che si fosse alzata e si rammaricò con se stesso. Si accorse che ne aveva poco, ed era un rosa chiaro simile al colore naturale. Poteva avere messo semplicemente un lucida labbra.

Perché mi fissi?” esclamò Teresa?

In che senso?” rispose Giuseppe accorgendosi che la moglie aveva notato la sua insistenza nel guardarla.

Tu hai un modo di guardare che a volte non mi piace. E’ come se volessi cercare di scrutarmi, di capire qualcosa che non dici…”

Lascia stare che è meglio” la interruppe Giuseppe versandosi un po’ di vino.

Mentre per tutta la sera aveva avuto l’accortezza di riempire il bicchiere di sua moglie prima del suo, si era scoperto a fare lo stesso gesto solamente per sé, ignorando Teresa. Era un piccolo inequivocabile segno di ostilità, che lei colse senza farglielo notare.

Quando giunsero alla cassa il commesso riconobbe Teresa.

Ancora qui signora? Questa volta la spesa è quella giusta?” domandò, lasciando intendere come non fosse la prima volta che la donna si trovasse al supermercato quel giorno e come, tra le diverse casse, casualmente o meno, avesse entrambe le volte pagato sempre nella stessa.

Eh già” rispose Teresa, aggiungendo come a voler sorvolare sull’argomento “ma gli sconti non dovevano incominciare oggi?”

No, signora Teresa, iniziano sabato” spiegò il commesso. “Qui da noi li facciamo sempre a partire dal sabato”.

Giuseppe osservò silenzioso la scena, mentre imbustava la spesa nei sacchetti. La moglie era già stata una volta al supermercato ed il commesso sapeva il suo nome. Perché? Era normale tutto questo?

Giunti fuori dal supermercato, mentre si dirigevano verso le loro auto, Giuseppe le chiese: “facciamo strada insieme?”

Per tutta risposta Teresa disse: “mi sono iscritta ad un corso di disegno. Voglio imparare a dipingere…”
Le due affermazioni, dette così, sembravano complementari. Forse il disegno lo era per la pittura in senso propedeutico, ma era abbastanza normale che Teresa buttasse li le sue frasi senza pensare alla logica della consecuzione con cui sosteneva le sue tesi.

Va bene” annuì Giuseppe. E senza girarsi a guardarla aprì la portiera dell’auto.

Anna e Giuseppe

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Buongiorno, parlo col signor Giuseppe?”

Chi parla?”

Lei non mi conosce. Mi chiamo Anna Zerilli. Ho in mano la sua agenda. L’ho ritrovata per caso e sono risalita al suo numero”.

Giuseppe l’aveva persa da almeno una settimana. Non aveva idea dove l’avesse lasciata. Sapeva solo che si era preso un enorme dispiacere. Per questo era stato nervoso, anche se a Teresa non aveva detto nulla. L’agenda non era solamente piena di indirizzi e di numeri di telefono che ad ogni anno aveva accuratezza di trascrivere quando conservava quella vecchia, ma era una miniera di appunti, alcuni anche strettamente personali. Non solo valutazioni e note prese per ragioni di lavoro, profili di studenti, programmi di corso, ma riflessioni sul mondo e sulla sua vita personale. L’idea che potesse essere andata a finire in mani sconosciute lo infastidiva non poco, ma nel frattempo il pensiero che l’avessero ritrovata gli aveva dato un grande sollievo.

Grazie. E’ importante per me” affermò, “l’ho cercata per terra e per mare e pensavo di averla lasciata a scuola, dove lavoro, ma non sono riuscito a trovarla, nonostante abbia messo sottosopra l’istituto. Se mi dice dove posso venirla a ritirare…”

Ma lei recentemente è stato al cimitero di Buona Speranza?” domandò Anna

No. Non ci sono stato se non una volta anni fa, per un funerale… Ma che c’entra con l’agenda?”

Beh” replicò Anna, non sapendo come dirlo “c’è che la sua agenda era poggiata sulla tomba di mia mamma”

Giuseppe rimase senza parole dall’altro capo del telefono. Stupito dall’affermazione di Anna, cercava di pensare come fosse potuta andare a finire in un cimitero e per di più sopra una sepoltura di una persona a lui sconosciuta.

Pronto? C’è ancora?”

Si, certo, sono qui” rispose Giuseppe. “Non so come sia potuta andare a finire sopra la sepoltura di sua madre. Mi dispiace se le ha creato dei problemi, ma io non sono stato in quel cimitero, glielo assicuro”

Guardi che per me non è un problema” provò a spiegare Anna, “anzi mi deve scusare se ho sbirciato un po’ fra le sue cose. Era indispensabile per capire di chi fosse l’agenda.”

No, ma si figuri” la rassicurò Giuseppe, cercando di ipotizzare cosa la donna potesse avere letto.

Anna aveva portato l’agenda a casa ed aveva trascorso l’intera notte a leggere i suoi appunti. Aveva trovato delle poesie e altri scritti che non era stata bene in grado di comprendere, di decifrare, ma le parole lette l’avevano incuriosita non poco.

Alla data del 22 novembre c’erano questi appunti: Tutti gli uomini in ginocchio canteranno una lode alla tua bellezza. Ti chiederanno di amarli, ammirarli, di capirli, consolarli. Sfruttali i bastardi finché ti inseguono. Ma non svendere mai cio che sei, anche se la vita è breve, pure se ti tenta. Chi ti vuole se lo meriti ed esca fuori l’amore, se lo conosce, e se non sa cosa sia ti copra d’oro per il resto dei tuoi giorni.”

Ed ancora il 15 gennaio: Ho appena finito di rivedere il film di Philip Groning “Il grande silenzio”, che racconta la vita dei Certosini che vivono all’interno della “Grande Chartreuse” a Grenoble. Ricordo che il film mi impressionò talmente da avermi spinto ad andare per ben due volte a visitare i luoghi, nell’illusione di “perdermi” nell’atmosfera religiosa di quell’angolo di Francia.

Scappare in una vetta o rifugiarsi in un eremo è la soluzione?. O lo specchio di nuovi luoghi riflette sempre noi stessi, con gli stessi problemi, le identiche paure, la medesima confusione?

L’essenziale non è da qualche parte nel mondo, ma è dentro di noi. Anche se non è facile avventurarsi. Anche se, a volte, il buio impedisce il cammino.

Siamo simili e tutti siamo impegnati nello scopo di essere pienamente umani. Per questo sono più di trenta anni che leggo libri che mi aiutino a comprendere la gente, che mi diano una visione quanto più completa dei sentimenti dell’uomo. Che siano giuda alla comprensione di me stesso, dei miei errori.

Continuo imperterrito lo stesso lavoro per cercare di essere una persona migliore. Ed ho ancora tanto da imparare.

Leggo, ascolto, cerco di capire. Sottolineo, ricopio, aggiungo del mio. Impasto idee ed emozioni per ottenere un’alchimia che mi dia una ragione concreta di esistere, un’alternativa alla dissoluzione del comune sentire. Si tende sempre a nascondere la parte migliore di sé per timore di essere vulnerabili, non abbastanza uniformati al sistema prevalente attraverso cui si “comunica”.”

Giuseppe era sicuramente una persona complessa e questo aspetto degli uomini se da un lato l’attirava, dall’altro la impauriva. Anna era sempre in guardia quando si trattava di maschi. Si chiedeva sempre dove stesse la fregatura e a che punto sarebbe spuntata.

Avere letto gli appunti di Giuseppe, le sue poesie, averlo potuto scrutare nell’intimo, le aveva dato l’opportunità, che lei riteneva essere un privilegio, di poter sfogliare le immagini del suo libro, senza che queste fossero alterate artatamente, con abilità avveduta, con l’inganno, subdolamente sostenute da una volontà di finzione o da altro genere di arzigogolamenti cui gli uomini erano usi quando desideravano fare colpo in una donna.

Anna aveva un passato di vita omosessuale, iniziato durante l’adolescenza e poi protrattosi negli anni, senza che questa sua “condizione” si trasformasse in scelte di vita definitive. La sua magrezza e quell’aspetto leggermente mascolino, accentuato da un taglio di capelli corvini decisamente corto, avevano contribuito a dare ad Anna un’immagine di se stessa priva di femminilità, mentre così non era, e la prova consisteva principalmente nell’interesse che destava nei maschi. Aveva mani lunghe e la pelle bianchissima, gli occhi azzurri e i capelli a metà orecchio, con una frangetta lunga, dritta e spettinata. Alta, dal collo elegante, con spalle magre e larghe, era molto spesso corteggiata. In qualche occasione non aveva disdegnato di avere delle brevi storie con gli uomini dei quali però si stancava subito, ritenendo il “genere maschile” talmente diverso dal suo modo di essere, di sentire, lontano anni luce dalla sua sensibilità, da indurla a ritenersi incompatibile. E per quanto l’aspetto sessuale del suo rapporto con i maschi non la infastidisse, come invece accadeva a tante sue amiche gay, non riteneva sufficiente questa componente a controbilanciare tutto il resto.

Se c’era un aspetto che detestava nei maschi era proprio la loro necessità di doverci provare sempre e comunque. Come se avessero scritto nel dna che la loro virilità, che era la forma prioritaria di auto-considerazione e quindi di autostima, fosse necessariamente subordinata al sesso. Le dimensioni del pene, la quantità di amanti avute, le esibizioni ginniche a letto, che trasformavano in “scopare” il piacere di “fare l’amore”, erano per Anna tutte componenti che li facevano assomigliare più a bestie che ad esseri umani.

La diffidenza verso gli uomini, che negli anni si era sviluppata, l’aveva condotta ad analizzare con scrupolosa meticolosità ogni aspetto caratteriale e non, di coloro che volevano conoscerla, incontrarla per un caffè, uscire per una cena.

Chissà questo quanto tempo ci metterà per arrivare al dunque”, diceva a se stessa al primo incontro. Altri aspetti, meno dichiarati, ma parte dell’insieme con cui incasellava le piccole tessere del mosaico che aveva di volta in volta di fronte, la inducevano a fare previsioni di vario genere, quasi sempre azzeccate.

Se l’anulare della mano sinistra aveva un leggero restringimento in corrispondenza della piccola area dove normalmente si dispone una fede nunziale, era più che evidente che quell’anello fosse stato tolto di li a poco prima. Se ogni specchio, vetrina, cristallo di auto, era occasione affinché il suo accompagnatore occasionale cogliesse la propria immagine riflessa, con sguardi insistenti oppure veloci, furtivi, seppur costanti, era segnale di una vanità incontrollabile. Se gli occhi del maschio di turno non riuscivano a limitarsi a ricambiare il suo sguardo ma, per una necessità incontrollabile o, peggio ancora, per una voluta sfacciataggine, scivolavano sulle sue tette, sulle sue gambe, sul suo culo, che non venivano solo accarezzati, come nel lieve pudore di chi passa e poi va via, ma venivano squadrati, immaginati, valutati ed infine, seppur virtualmente, palpeggiati, erano indicazione di quell’appetito sessuale malato di coloro che scopano anziché fare l’amore.

Allo stesso modo non vedeva di buon occhio gli uomini che pretendevano di pagare il conto:. “se io esco con te e tu non sai nulla di me, perché mai quella che tu definisci “galanteria” dovrebbe darti un credito nei miei riguardi che nessuno ti ha concesso?. Non è forse normale che chi da prima o poi pretende?”

Se proprio fossi costretta a scegliere preferirei un uomo che mi dice subito se vuole fare sesso e perché, piuttosto che quelli che fanno il giro partendo da molto lontano. C’è sempre di mezzo una moglie che è diventata come una sorella.” pensava “ed io non ho nessuna intenzione di fare la fine di quelle povere donne che sposano mariti di questo stampo”.

E non era solamente teoria. Tanti anni prima, quanto basta per non ricordarsi più quanti ne fossero trascorsi, mentre era in attesa della metro in una delle fermate della linea rossa, le si era avvicinato un ragazzo molto carino che a bassa voce le aveva sussurrato: “io due colpi te li darei con tutto il cuore”. Per nulla intimidita gli aveva risposto “anche io”.

Così aveva finito per non salire più sul mezzo. Aveva saltato la sua lezione di diritto canonico e con quello sconosciuto si era infilata nel primo albergo incontrato per strada, mentre una pioggia battente fondeva le loro mani, strette in un’improvvisata presa colma di aspettative.

Questa era la parte di Anna più recondita, diversa da quella ufficiale, istituzionale, che la costringeva, quale Dirigente Scolastico di un Istituto comprensivo fatto di scuole elementari e medie inferiori, a comportarsi come un funzionario integerrimo, volenteroso, pieno di idee e buona volontà.

Era stato abbastanza facile vincere il concorso bandito dal Ministero, dal quale erano trascorsi oramai ben tredici anni. Le prove, due sessioni di scritti e due di orali, l’avevano vista arrivare seconda su una rosa di circa cinquecento candidati. Questo le aveva consentito di scegliere la sede di assegnazione, sulla quale si era doviziosamente informata prima di decidere. Non era essenziale la distanza, a quella c’era sempre rimedio, ma lo era fama del Preside, suo diretto superiore, al quale avrebbe dovuto rispondere ogni giorno dell’anno, dando esecuzione alle sue idee ed assumendosene, conseguentemente, le responsabilità.

Per questo, alla fine, aveva deciso di cambiare città, finendo per scegliere l’Istituto Gramsci. Ottocento alunni suddivisi una cinquantina di classi spalmate in quattro sedi diverse, alcune delle quali in regime di convitto. Il suo lavoro non la portava ad avere a che fare con gli alunni se non sporadicamente, quando uno sbaglio di stanza o qualche necessità particolare, come un’improvviso malessere che li obbligava a chiamare i genitori, li faceva transitare dagli uffici di segreteria.

La Preside era una brava donna con sani principi. Una con cui “si poteva lavorare”.

Quando terminava le sue giornate di lavoro, cinque mattine ed un giorno intero, per un totale di sei giorni ogni settimana, prendeva la sua piccola Opel e tornava a casa. Condivideva un quadrivani posto al terzo piano di una delle tre palazzine che componevano l’unico residence della strada, con Francesca Cascino, un’impiegata del Ministero della Pubblica Istruzione, cinquantaquattrenne, dichiaratamente lesbica. Si conoscevano da anni. Anna aveva presentato la documentazione necessaria all’assunzione portandola negli uffici del Provveditorato agli Studi. Era una mattina di maggio ed aveva indossato un vestito giallo a maniche corte con disegnate delle piccole farfalle stilizzate. Quando dall’ufficio del protocollo l’avevano dirottata al primo piano dell’austero palazzo, uno dei più vecchi del centro storico, si era trovata davanti Francesca che indossava il suo identico vestito.

Si erano messe a ridere divertendosi all’idea che qualcuno potesse pensare al loro abito come una nuova divisa imposta alle impiegate ministeriali. Nel presentarsi Anna aveva dichiarato di avere 26 anni ed era rimasta stupita nel sapere che Francesca ne avesse solamente 41 anni, dimostrandone almeno cinque di meno. Bassina, un po robusta, occhi e capelli castani, ricadenti sulle spalle, Francesca aveva un naso sottile, elegante, e due seni prorompenti che si intravedevano attraverso l’ampia scollatura. Indossando lo stesso vestito Anna notò come lei, a differenza della donna che aveva di fronte, avesse deciso di abbottonare tutti i bottoni, assumendo quell’aspetto da collegiale che più le si confaceva.

Parlando Anna aveva detto a Francesca che il suo più grande problema di li a breve, sarebbe stato quello di riuscire a trovare un’abitazione con posto auto e in un piano non eccessivamente alto, per via delle sue vertigini e della paura per gli ascensori.

Francesca gli aveva risposto parlandole di coincidenze e di quanto le ritenesse importanti nella sua vita. Prima il vestito ed adesso questo discorso della casa da trovare in affitto. Proprio Francesca, appena il giorno prima, aveva messo sul giornale locale degli annunci, la disponibilità a dare in locazione metà del suo appartamento. “Ed arrivi tu. Ed ho scritto solamente ragazze con un impiego fisso…”.

…e che indossino un vestito giallo con farfalle rosse e fuxia…” aveva ribattuto Anna ridendo e giocando sull’idea delle coincidenze.

Si erano piaciute da subito e ad Anna non fu difficile ritenersi più che soddisfatta delle due stanze che Francesca le metteva a disposizione ad un prezzo basso ben oltre le sue aspettative.

Si era trasferita quindici giorni prima di prendere servizio e la loro convivenza durava oramai da dodici anni nove mesi e tredici giorni.

Una sera, all’inizio dell’estate, quando le giornate erano abbastanza lunghe da consentire di poter leggere con la luce naturale fino a tardi, Anna che viveva da un paio di mesi nel nuovo appartamento, si era seduta in terrazza, assorta nella lettura delle pagine dell’ultimo libro di Osho, del quale collezionava immagini, discorsi ed anche copie di libri in lingua originale. Fu chiamata da Francesca, che si trovava all’interno dell’abitazione.

Era nuda, distesa nel letto con una pomata nella mano destra.

Gliela aveva porta chiedendole :“mi fai un massaggio? Credo mi sia venuto il colpo della strega”

Anna aveva annuito, accorgendosi di provare un’emozione che conosceva, un misto di eccitazione e scombussolamento. Mescolando vergogna, immaginazione, pudore, desiderio di libertà a senso del dovere, aveva iniziato a massaggiarle la schiena.

Dopo un poco Francesca si era girata dall’altra parte, mostrandole il petto e chiedendole di continuare il massaggio. I loro sguardi si erano incrociati e quando Anna, arrossendo, aveva allungato le sue mani verso i seni, Francesca l’aveva tirata a sé.

Quando il bidello fu entrato nella sua stanza per dirle che c’era un signore che desiderava parlarle Anna non pensò a Giuseppe, pur avendogli dato appuntamento per quella mattina. L’auto non ne aveva voluto sapere di mettersi in moto ed era stata costretta a prendere la metro. Stanca e svogliata aveva trascinato le gambe molli, un passo dietro l’altro, verso il binario del treno. Viaggiare con i mezzi pubblici la stressava, avendo fatto questa vita per diversi anni ai tempi dell’Università. Per compensare l’umore funereo si era munita di libro, iPad e cuffie, determinata ad isolarsi dal mondo, ignorando i terribili compagni di viaggio ed evitando categoricamente di leggere la posta o, peggio ancora, lavorare. Seduta da sola in uno dei posti all’estremità del vagone aveva poggiato la borsa con il notebook e le altre sue cose sul sedile di fronte in modo disordinato. Non aveva voglia di parlare con nessuno e quel giorno per esserne certa aveva indossato anche gli occhiali da sole, continuando a tenerli per tutto il tragitto, nonostante fossero le sette e il continuo susseguirsi di gallerie rendesse la luce della carrozza piuttosto tenue.

Quando Giuseppe fu entrato nella stanza lo riconobbe subito, ancor prima che fossero fatte le presentazioni. Quell’uomo era esattamente come se l’era immaginato.

Cosimo

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Cosimo aveva seguito le orme paterne, appassionandosi al disegno prima ed alla pittura ed alla scultura poi. Per questo finite le scuole medie inferiori, si era iscritto al Liceo Artistico, che aveva frequentato con profitto, diplomandosi con il massimo dei voti.
Durante gli anni di scuola portava i capelli lunghi fino alle spalle e riscuoteva un discreto successo con le compagne, tanto da farsi una fama di rubacuori, aspetto che non corrispondeva per nulla al suo modo di essere, di sentire, almeno in quel periodo.

Aveva l’abitudine di definirsi un ragazzo, quando parlava di sé, ma questa affermazione non era il frutto di un ragionamento. Lui molto giovane si sentiva davvero. A differenza di molti dei suoi coetanei, non aveva attraversato il confine oltrepassato da coloro che incominciano a fare un bilancio della propria esistenza.

Una volta sedicenne aveva scritto in un tema di scuola: “non farò mai la fine di gran parte di quelli della generazione che mi ha preceduto. Quando li incontri li riconosci subito. Hanno i volti tirati, gli occhi tristi, sono sommersi da pensieri e responsabilità. Mogli con cui non vanno più d’accordo, figli che non avrebbero mai voluto avere, un lavoro che non amano e al quale si son dovuti adattare per sopravvivere. E tirano a campare, si stressano, si ammalano. E poi muoiono con la paura. Il terrore di avere sciupato la loro occasione vivendo una vita che non era la loro. Per me non sarà così.”

La sua gentilezza veniva fraintesa per disponibilità e Cosimo amava far credere che fosse così.
Alle volte si meravigliava delle attenzioni che riceveva apparendogli superiori ai suoi intenti. Con compiaciuta ammirazione per se stesso, era convinto che i suoi modi, la sua cordialità, le buone maniere, il suo modo di sorridere fossero espressioni di generosità verso l’universo femminile. Si concedeva, benefattore, elargendo con consapevolezza garbo e buonumore, rassicurando le ragazze e le signore sul loro aspetto, sul gradimento del proprio apparire. Ne ricavava quella cordiale amabilità che appariva in contrasto con gli atteggiamenti magari visti qualche attimo prima, elargiti ad altri uomini, così alla cassa di un supermercato come in una banca. L’indifferenza dei gesti routinari durante il proprio lavoro rendeva a queste donne trasparente il cliente o l’utente di cui era giunto il turno. Alzavano lo sguardo di pochi centimetri, quanto bastava per capire chi avessero di fronte. Gli occhi non cercavano gli occhi ed era sufficiente perché proseguissero nelle loro attività senza proferire parola. Quando arrivava il suo turno, Cosimo notava che le cose andavano diversamente, gli atteggiamenti si trasformavano.
Alcune di quelle donne erano improponibili per la loro età o per la bruttezza della quale certune sembravano essere consapevoli, ma questo non impediva loro di cercare un riconoscimento visivo, verbale, un approccio confidenziale fatto di sorrisi, qualche battuta, gentilezze riservate a pochi, qualcosa che sembrava andare oltre la buona creanza.
Tra il divertito e il dispiaciuto per pose e ammiccamenti che in più di una qualche occasione gli apparivano patetici, Cosimo stava al gioco. Dimostrando trasporto, si convinceva di dare una fuggevole gioia. Vedeva quelle donne come dei frutti maturi appesi al ramo di un albero stracolmo e lui era uno dei pochi prescelti al raccolto.

A Cosimo appariva quasi normale incappare nella cattiveria, nella maldicenza, nell’invidia, nell’odio. Diceva a se stesso che il lato oscuro degli individui faceva parte della vita e, in quanto tale, andava accettato.
Magari faceva finta di nulla. Un disinteresse spontaneo quando il destinatario dell’altrui negatività era persona sconosciuta o lontana, magari vista in televisione, durante un talk o letta sul giornale come fatto avvenuto da qualche parte, nel mondo.
Altre volte si accorgeva di condividere l’astio. Si stupiva, ma non sempre. Abituato com’era a ritenersi parte integrante di quella schiera di persone capace di concepire esclusivamente “buoni sentimenti”, provava a nascondere questo aspetto del proprio “sentire” che riteneva, in quanto orribile, da censurare agli altri così come a se stesso.

Quando veniva a conoscenza dell’odio a lui indirizzato direttamente dalle interessate, durante un litigio, o per via indiretta, come era successo nel caso di Teresa, che si era presa la briga di correre a raccontargli “la tua ex va dicendo che…”si rabbuiava.
Ragionando su quella che, nel tempo, non gli appariva più come una circostanza occasionale, essendo state ben numerose le donne che, negli anni, lo avevano ingiuriato, descrivendolo come persona cinica, cattiva ed egoista, si era interrogato, stupendosi di come l’acrimonia avesse origine quasi sempre in quelle con le quali aveva mantenuto rapporti che lui aveva ritenuto esser stati stabili e duraturi.
Nulla che provenisse invece dalle compagne di una sera, dagli incontri brevi, occasionali, passioni che duravano un paio di giorni, come una settimana o un mese.
Per quanto fosse arrogante ogni tanto veniva assalito dai dubbi: “Forse non hanno il tempo di capire come sono realmente”.
E l’idea che questo “marchio” con cui veniva segnato fosse vero, tangibile, che quelle donne avessero realmente ragione sul suo modo di essere lo sconvolgeva. Pur comprendendone il significato, il valore etico che veniva dato ai suoi comportamenti, non riusciva ad accettare che tutto questo discutere riguardasse lui, proprio lui, che tutto sommato si considerava una brava persona, capace di provare e dimostrare solo buoni sentimenti.
Lui si consolava, pensando che la vendetta è una scelta che manifesta chi è più debole. In effetti le sventurate che cadevano nelle sue grinfie non avevano torto. Erano perfettamente ignare di come, per Cosimo, le donne fossero classificabili in tre categorie generali, due definitive ed una temporanea…

Giuseppe

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Giuseppe era un insegnante attento ed abbastanza soddisfatto del rapporto con i “ragazzi”. Il suo dono era quello di riuscire a tradurre la parte astrusa della filosofia in linguaggio comune, con esempi facilmente comprensibili.
Lo studio della filosofia per Giuseppe non doveva rappresentare un’infruttuosa sfacchinata. Per questo bastavano la matematica, la fisica ed il latino. La filosofia era e doveva essere rappresentata come una materia leggera, conveniente da studiare, come un proficuo aiuto quotidiano per affrontare la vita di tutti i giorni, imparando a pensare con la propria testa, valutando punti di vista diversi. L’opportunità per trovare il coraggio di affrontare l’esistenza nel suo spirito socratico, con curiosità, senza arricciare il naso.

Per pensare in maniera ordinata doveva, gioco-forza, circondarsi di ordine. Simmetria o asimmetria faceva lo stesso, non era questo il punto. Certamente non oggetti gettati alla rinfusa, nessuna anarchia dello spazio. Vedere l’ordine era sempre stato rassicurante per Giuseppe, alla stessa maniera in cui il disordine diventava fonte di distrazione. Un tappeto non perfettamente steso, con i lembi ripiegati per un accidentale inciampo, un quadro storto, un letto disfatto, il lavello della cucina pieno di stoviglie, erano tutte immagini che attentavano al suo incedere mentale. Ma da sempre era stato così anche con la musica, che era compagnia, e gli consentiva di fare altre cose contemporaneamente, solo se espressione di armonia. Poteva leggere con Chopin e non con Bach, così come poteva semplicemente pensare ai fatti suoi ascoltando Stevie Wonder e non i Rolling Stones. Ogni cosa al posto giusto, ogni evento al momento giusto.
In quella domenica pomeriggio, seguendo il corso dei propri pensieri, bisognosi come detto di ordine, aprì il primo cassetto a destra della scrivania ed una quantità infinita di oggetti traboccanti urlò l’esigenza di un po’ di criterio. Due penne in finto legno regalo della casa editrice Marini, la scatola dello Swatch, un carica batterie di non sapeva più cosa, due spillatici, nastro adesivo, una confezione di batterie stilo, una di ministilo ed una batteria da telecomando, il righello con la riproduzione dell’arazzo di Bayeux ricordo del viaggio in Normandia, quattro pennarelli indelebili, una confezione di Malox, due libretti di assegni usati, un portamonete vuoto, un portasigarette anch’esso vuoto, una calcolatrice, una torcia, un adattatore telefonico, tre accendini, una chiave inglese, una mascherina per la polvere (ormai schiacciata e resa informe dalla pressione degli altri oggetti), un bianchetto, un auricolare, un blocco notes Pigna formato A6, la garanzia sigillata di qualcosa di incomprensibile, un matitatoio, un tagliabalsa, uno dei due intramontabili Moleskine.

Negli anni Giuseppe si era fatta un’idea ben definita delle debolezze degli esseri umani. Fragilità dalle quali lui non era immune di certo. Ma almeno, a differenza di molte delle persone che lo circondavano, provava a capire, interpretando il modo di sentire e quello che ne conseguiva, decifrando le sensazioni che, in lui come negli altri, si trasformavano in sentimenti, in azioni, in comportamenti più o meno comprensibili.

All’origine di tutto c’era a suo avviso la paura della morte come di tutto ciò che la ragione dell’uomo, in quanto limitata, non riusciva a capire. Così prolificavano fobie alle quali ciascuno rispondeva come poteva, come sapeva o, per meglio dire, così come era stato abituato a fare, assimilando da chi l’aveva preceduto, da chi l’aveva amato, da chi aveva frequentato o dai luoghi in cui era cresciuto ed aveva vissuto.

“L’unica ragione è che non esiste nessuna ragione”, pensava Giuseppe. E negli anni, quando ormai insegnava da diverso tempo, si era reso conto di quanto impossibile fosse spiegare ai “suoi ragazzi” le diverse teorie filosofiche senza che queste venissero suggestionate dai suoi ragionamenti.
Dire senza dire. Spiegare senza condizionamenti. L’insegnamento come enunciazione, come giornalismo. Parlare di Kant come se si fosse dovuto descrivere un fatto. Enunciare le teorie di Spinoza senza commentare. Divulgare le fesserie che erano scritte nei testi senza poter illuminare le menti di quelle generazioni di future “anime perse” che aveva visto susseguirsi in quei banchi verdi, tra mura anonime, in edifici obsoleti, in attesa di una campana che riconducesse tutti alla libertà. Ma quale libertà?

Teresa

Era stanca di provare rabbia e risentimento verso il successo e la felicità degli altri. Stufa di soffrire all’idea che la vita non potesse riservarle lo stesso trattamento.
Se non si era laureata era perché suo padre era morto e sua madre era rimasta invalida. Sua sorella era partita per seguire il suo fidanzato e a lei era toccato andare a lavorare per dare un aiuto a casa.

Non sapeva perché le stesse accadendo ancora. C’era qualcosa che la faceva sentire debole, vulnerabile, indifesa, come quando era piccola e non aveva armi per evitare ciò stava per succedere. “Destati Teresa! Reagisci…” sussurrava a se stessa parlando da sola.

Quanti erano i pensieri inconfessabili, quelli che ciascun essere umano nasconde agli altri? E quanti i desideri nascosti? Infinite frasi che provava a declamare, pantomima in cui si trasformava, mimando gesti per un pubblico distratto, anonimo.
Una danza muta sul palco di un teatro semi vuoto, dove recitava con addosso costumi di scena che non erano i suoi. Un linguaggio noto, prevedibile ed una maschera inespressiva che copriva il suo vero volto.

Aveva assimilato molto dal marito, dalle sue parole e dal modo con cui interpretava le persone, ma non glielo avrebbe mai ammesso neppure sotto tortura. Le gente era per lei un condensato di tutto, un potpourri di emozioni slegate dalla sommatoria dell’educazione ricevuta, delle esperienze fatte, delle gioie avute e dei dispiaceri subiti. Non erano le competenze acquisite a fare la differenza, bensì il destino di ognuno, quella imponderabile ed ineluttabile sequenza di eventi a cui era inevitabile rassegnarsi. Gli altri erano ciò che dovevano essere, ben di più di quello che volevano, che desideravano.

Non era stata capace di concretizzare i propri sogni. Per errate valutazioni, sfortune improvvise, mancanza di idee chiare, di volontà, di caparbietà, non aveva mai raggiunto l’indipendenza, sentendosi insoddisfatta come quelle persone che si muovevano come burattini gestiti da forze terze delle quali erano succubi senza spesso rendersene neppure conto, costrette ad adeguarsi facendo buon viso a cattivo gioco.

Ciò che la faceva soffrire era il riconoscersi in coloro che erano incapaci di dare una svolta alla propria vita. Non c’era fine d’anno, inizio di mese, di settimana, compleanno o qualsiasi ricorrenza le capitasse di vivere, in cui Teresa non dicesse a se stessa: “ora cambio, da oggi.. da domani. Sarà tutta un’altra roba. Farò questo. Farò quest’altro…”. E il dormiveglia delle sere che precedevano queste occasioni rituali era lieto, gioioso, sereno, perché colmo di buone intenzioni, di idee chiare, di svolte repentine, di cambi di rotta. Poi, con identica triste ripetitività, le speranze si affievolivano d’entusiasmo, le aspettative scemavano, la buona volontà latitava dietro i “c’è tempo”, l’idea del destino prendeva il sopravvento. Una sorte che interveniva nelle sembianze della sfortuna che privilegiava sempre qualcun altro al suo posto.